home di compagnia Fonetica 

'Chiaro come uno Sparo'
 

é uno testo poetico-fonetico-teatrale sulla diserzione nella Prima Guerra Mondiale e sulla solidarietà femminile ai nostri soldati in rovinosa ritirata dalla invasione nazi-fascista delle Repubbliche Sovietiche. Il sottotitolo 'Scendi dalla Lapide' è motivato dal fatto che i personaggi sono tutti presi dalle lapidi dei caduti di Bordogna, Baresi, Roncobello in alta val Brembana, dietro Bergamo.

TEATRO fonetico ERETICO poetico
“ CHIARO COME UNO SPARO!”
di Alberto Sighele con Rosa Yurchenko della Compagnia Fonetica
Testo Poetico cucito da canzoni del Coro Vallagarina diretto da Renzo Vigagni
Introduzione di Ubaldo Gervasoni ispiratore della storia di Emmanuele (un suo zio).
Quanto gli raccontò il padre.
Le Immagini di Pittura Fonetica scaturite dal testo sono di Alberto Sighele


“Scendi dalla lapide e scivola
nella nostra coscienza, chiaro
come lo sparo che ti ha forato la fronte
al fronte, il primo giorno del tuo rientro.


In prima linea al primo attacco, 
il primo ordine appena hai messo
fuori la testa per testare l’aria:
in uno schianto è tutto finito!

Mica è così nemica l’aria,
anche il nemico respira il cielo,
mica respira terra nella trincea,
anche se trincia l’aria la mitragliatrice!

Dobbiamo uscire di scatto
dalla trincea, di slancio all’attacco
o ti spacca le costole e la spina dorsale
lo sparo da dietro la schiena del tuo ufficiale.


Tra le scapole ti mira al cuore
per non farti male, ed è tutto finito.
Anche la storia del disertore: chi se non loro,
stare sempre dietro è il loro ruolo.

L’ufficiale è dietro e da dietro si spara:
loro il grilletto, e chi ha detto ha dato
l’ordine di andare 
a farsi ammazzare.

Lo slogan è “andare sempre in avanti”
finchè tutti quanti
saltiamo sulla morte:
contorcerci nello scoppio la nostra sorte.

Giocattolo inutile schioppo e baionetta
resta solo la fretta
di spingerci avanti
dalla trincea alla fossa.

La mossa della Grande Guerra
è ignorare la guerra nella guerra,
tritturarci in un mortaio di bombe
coprici le ossa di terra,

e onorarci sulla lapide inutile.

Eri fuggito
oltre la griglia dei carabinieri
la rete degli informatori:
ai disertori, la fucilazione sul posto.

Bruciata la divisa e la faccia,
agile piccola nuda formica,
nemica la tua giovane età,
sospetta, spostandoti di notte,

eccoti qua di ritorno
nell’utero della tua valle, 
nelle pieghe alla pelle al paese, 
senza madre, né chiesa, né casa.

Gli alberi gli unici amici, 
le radici e le foglie il tuo cibo,
come erano rimasti anche allora
i fili d’erba l’unica fede.


La madre tua in un sussurro
di lacrime ti aveva detto:
il mio tetto per te è insicuro.
figlio mio, capriolo, ora fuggi!


Non mio, solo figlio di Dio,
preferirei la mia alla tua morte. 
La nostra vita di viscere è finita,
cerco anch’io con te ormai l’oltre.


La chiesa è chiusa anche lei
in questo momento al lamento, 
il prete è il più traditore, 
era padre ai poveri, ora Patria.


La Patria ora magia i suoi figli.
Tuo padre sarebbe stato più padre, 
e io madre sono mare ormai spoglio.
Figlio mio, mio capriolo, ora fuggi!

Figlio mio,
credi in Dio e nel mio cuore, 
figlio mio, mio capriolo,
non sentirti mai solo!


La vita che provvede al capriolo
e alla formica, formula 
un’altra versione. 
Non è facile distinguere in una guerra

una formica dall’
altra, 
tutte 
raso terra.

E tutte le storie sono vere, se la verità
universale è che la guerra fa male, 
se impari che i meccanismi sono 
quelli, di negare che siamo fratelli.

Se il sangue sparso si mescola,
quello dell’amico e del nemico,
della vittima e dell’aggressore
il fiume sangue scorre dove vuole

fa rosso il tramonto perché
possiamo meditare nella notte
se sei pronto ad uccidere o amare
innanzitutto la lotta è interiore.

Emmanuele dice al fratello Felice,
“Tornato in licenza,
sapendo quello era un macello,
rinculavo come spesso fa il mulo.

E se il muro difendeva ben poco
dal grosso calibro che tutto divora,
al paese l’opinione compatta 
respingeva me nella sconfitta.

“Cosa fai, sei matto, ti fucilano!”
Non sapevano quelle erano viole
al giacere con gli altri al sole,
dissanguati, a morire gemendo.

Più bello essere vivi ancora un poco.
E i paesani ed il prete e il carabiniere,
convincendosi che era il mio bene,
la caccia mi davano: ero un cane

randagio.
Erano loro le mani che, adagio,
rifiutandoti il nido ed il cesto,
mi infilavano il collo al capestro.



Sconfitta mia e del mondo, questo 
era il fondo possibile, pensabile.
Era meglio un’estate, alla strage.
Era meglio esser bestia in foresta.

Qualche mese di vita ancora
col paese in vista e il suo odore
e lì abita mia madre, la sola
che capisce il non essere capiti.

Solo il bosco, a me, fuggito di maggio,
lasciava qualche raggio e il fruscio,
il silenzio e lo spazio nel cielo,
non l’insonnia, il frastuono e la frana.

Quella grappa schifosa al rabbocco,
all’attacco da cui nessuno ritorna,
e se torni, non sai più cosa dire:
in uno scoppio era meglio morire.

Il mio nuovo fronte è la Ghegna, sulla schiena 
alla madre montagna, perché a te che fuggi, 
i faggi, le lacrime dei larici, i pini 
pungono, parlano, portano la tua pena……”

Ma chi erano costoro?
Di chi parli? 
Facci i nomi loro
che possiamo controllare

se è storia del paese nostro 
o storia universale.
Poco vale la distinzione:
con la guerra, la vita, il destino

è uno, è tutti. O tutti
è nessuno e niente. 
Ma adesso dicci di loro, 
chi era questa gente?:

Il capriolo disertore
è Emmanuele, “Dio con noi”,
Colui che scrive dritto su righe storte,
il più vicino a noi.

Un altro, è il fratello Giacomo, già come 
la moltitudine di figli contadini
vicini alla terra, braccia e cuore, 
caduti sulla breccia della guerra.

Pagati con un’onorificenza, senza
una indennità ai loro per la ripartenza. 
Carcasse risucchiate dal Carso con scarso esito
se non nei fiori selvatici.

La madre è Orsola, un’orsa, quella
Maggiore, persa nel cielo che fugge,
dopo essersi dispersa coi figli, uno e l’altro, 
nel bosco o tra i proiettili e le schegge.

Il fratello più giovane Felice quello
che raccolse i particolari e le angoscie:
come Giacomo fosse ucciso a Febbraio,
che la guerra è un carnaio.

Il figlio lo capì dai silenzi del padre
dal mutismo della nonna dalla tomba,
dalle onorificenze date e negate,
che la storia va riscritta, la guerra disfatta.

Ma mentre qualcuno la fa e la ha addosso, almeno, non un secolo dopo, adesso!
O meglio, molto prima, svuotandone le
cause. Uno judo che ne denudi le mossa.

A Gaza, Irak-Siria, Africa, Cecenia, Ucraina, 
negli imperi, le armi, l’ingiustizia, 
nel crogiolarsi, sventolarsi da vittima,
e mai il coraggio disarmante del dialogo,

nel costruirsi nel cuore, e qualcuno te lo
costruirà a tavolino, un nemico.
Ai potenti formidabile foglia di fico
ai loro interessi e noi fessi!!


Chiamiate “Spoon Brembo” 
a far parlare i morti, se li volete risorti,
a raccontarci come vivere oggi!
Fateli scivolare dalla lapide!

E che nessuno li voglia lapidare
se raccontano un’altra storia.
E’ una polenta la storia, 
lenta a cuocere,

ma forse dopo 100 anni è pronta :
Bonetti Giuseppe caduto sul monte Maio
dice mai più, da allora, - su questo è chiaro -
anche se troppo macabri i particolari. 
Gervasoni Alessandro e Bernardo, fratelli,
caduti su diversi fronti, 
uno di qua e l’altro di là dei monti 
del confine, sono anche loro reticenti,

forse per paura della censura militare. 
Dicono solo che gli unici anni belli 
erano quelli al paese prima, dove 
non cantavano le granate, solo gli uccelli.

Gervasoni Raffaele, il cui nome
è ripetuto nel casato dei Stèle,
alla gloria, alla fama in guerra,
preferisce la fame o mangiar terra.

Gervasoni Giovanni, l’ultimo sulla lapide 
di Baresi per questa guerra, voleva solo,
febbricitante nel soffrire del morire, 
il bacio, la carezza della madre. 

E arrivò fino al paese Gervasoni Carlo,
col peso della guerra negli occhi
nell'anima, nel corpo, ne fece le spese,
non riuscì a superarlo

Così noi, l'Italia, l'Europa, il mondo,
non riuscendo a scioglierlo,
capirlo, diluirlo, digerirlo, cagarlo
il peso, il senso, il nodo, il blocco,

la costipazione della guerra, 
nel rancore ancora:
popoli senza guida,
occhi senza pupilla,

petali senza stelo 
a sorreggerli:
ecco un’altra Guerra Grande
a spargerli!

Mussolini il nostro duce e condottiero
alleato a Hitler profeta vero
contro quegli slavi razza inferiore
strappa gli alpini dal cuore delle Alpi

per mandarli nei denti all'inverno, 
un inferno di superiorità di fuoco presunta, 
a devastare il grembo ad una madre,
ripetere l'epopea Napoleone vincenti.

E la terra insanguinata dagli eccidi
di massa di Stalin, decide da Stalingrado 
di no, Kursk è cuneo alla riscossa, 
terra rossa di sangue e bandiere false,

eppure si difende, solco dopo solco,
fiume dopo fiume. E l'inverno combatte 
con loro. Dal cielo il gelo punisce l'invasore. 
Proprio allora...

Interruzione, introduzione di Rosa
col ricordo del racconto della madre

il cuore delle madri russe, ucraine,
lepre lieve su neve, insegna il futuro
e la sopravvivenza, l'istinto animale, spirituale 
ha il sopravvento sul vento di guerra.

Le patate contadine tolte dalla bocca 
dei figli per questi altri figli 
di madri nemiche, le fasce dei bimbi 
per le ferite di chi ha colpito i tuoi uomini.

Sono sempre le madri a salvarci,
russe, questa volta, 
che raccolgono e sfamano
e fasciano - storia capovolta -

questi figli alpini feriti, 
con la penna strappata d’inchiostro,
solo figli molto simili al nostro,
in guerra sul lato opposto.

Fascisti, stalinisti, per caso, 
per ignoranza, per forza,
per obbedienza, mancanza di coscienza,
momentaneo istinto di sopravvivenza.

Anche noi madri punite da Stalin
come i generali e gli ufficiali patrioti, 
troppo noti, di cui era già 
stupidamente geloso.

Chi difende la terra, la madre, la vita, 
la natura che nasce?
Mi risponda qualcuno!
Cos'è la patria? se riesce!

Possiamo ancora chiamare mostri
quei nostri disertori della guerra? 
Le madri, pronte a vedere figli e fratelli 
nei brandelli del nemico?

L'ascia va seppellita nel cuore.
Ora chiamiamoli per nome, 
uno a uno, i partiti a combattere
e nessuno chiedeva perché.

Gervasoni Bruno scriveva a Fermo 
suo cugino per capire ma fu 
fermato prima. Solo la salma 
per Franco, Arturo, Onorino e Nina.

Per Gervasoni Raffaele forse vale
quanto detto sopra per Emmanuele:
disperso in Montenero vuol dir di tutto
-come per il fratello Delfino c'è tutto il mare-

così è definito disperso anche Federico 
Bonetti, con certi sospetti come...
Lo metti almeno nelle pianure russe.
Qui resta una frazione col suo nome.

Di Bordogna ci sono i tre fratelli 
Cattaneo Emilio, Giuseppe e Silvio.
Qui in Russia risultano tutti dispersi.
Ti fa paura che non ti dicano niente.

Forse è bene chiamarli per nome,
gridare per loro, tre volte: presente!
Era facile perdersi in quelle vastità,
in un paese straniero con ordini 

contro coscienza umana che si apre,
senza una montagna cui appoggiarsi,
senza una guida se non la solidarietà
di una casuale capanna e una donna.

Urrà! Una patata, un fuoco, una benda,
una slitta, una lacrima vera, un sorriso,
un viso di donna, di madre, che sospenda
la morsa del freddo e la cancrena,

Un sorriso di sorella che con occhi
dolci di amante dopo tante traversie
tocchi anche a ciascuno di loro
un sussulto di vita e di senso.

Ad ogni nome diremo: presente
e il nostro fratello perso in Russia
così sente il sangue che torna il calore
il colore dell'anima, la luce, l'amore

dopo il nome come un sol uomo
gridiamo: PRESENTE!
Gervasoni Federico: Presente!
Più forte, non si sente: Presente!

Vieni dal fondo, Gervasoni Colombo!
Presente!
Sei ancora in pista, Gervasoni Battista!
presente!

C'è un granaio per te, Milesi Gregorio!
Presente!
Dillo! Milesi Camillo!
Presente

Coccodè! C'è un uovo per te! Milesi Giosuè 
Presente!
Lo so che sei Gigi, Milesi Luigi! 
Presente!

É la tua festa domenica Milesi Domenico!
Presente!
Domani, domani, Domenico
non ti dimentichiamo.

Con due mani, Domenico, 
ti supplico, ti dico, diciamo
non ti dimentichiamo
su tutte le dita la vita

e che nessuna guerra le tagli,
nessuna granata ci scoppi,
tra le mani.L'avevano detto
gli altri, più alti sulla lapide

a Roncobello.
Quelli che adesso chiamo,
sono uno più bello dell'altro,
le donne dicono: li amiamo.
Non si può dimenticarlo, Bianchi Carlo!
Presente!
Biancaneve voleva, Bianchi Giovanni!
Presente!
Non si tira 'ndrìo, Gervasoni Sperandio!
Presente!
Basta chiamarlo, Milesi Carlo!
Presente!
Il più vivo, il più arzillo, Milesi Camillo!
Presente!
E' l'unico che può farlo, Manzoni Carlo!
Presente!
Ti aspetta da mesi, Luigi Milesi!
Presente!
Di polenta un paiolo per lui solo a: Milesi Paolo!
Presente!
E' venuto da Roma, Milesi SanPietro!
Presente!
Piacessi anch'io ma non riesco come, Piacezzi Francesco!
Presente! 

Li abbiamo nominati tutti,
quelli sulla lapide, ma quanti lutti!
E noi e loro vogliamo la vita.
Ma allora impegniamoci nel “presente”

o non sarà niente di questa nostra
celebrazione. La lezione è capire 
e fare. E allora sulla lapide di Roncobello
dobbiamo tornare a Domenico Milesi,

nostro e loro fratello, partigiano,
solo così usciremo illesi 
da questa peste
lui ci conduce per mano

per una nuova pista
alla parte opposta, 
anche l'Italia in due guerre 
è finita dalla parte opposta. 

Forse noi dobbiamo
finire la capriola mortale
dire addìo alle armi no alla guerra
ricostruire la terra dal disarmo unilaterale

Domenico è morto all'ospedale 
di Bergamo, dopo uno scontro a fuoco 
con i nazisti a S. Giovanni Bianco.
Lui aveva potuto, saputo, combattuto 

per scegliere da che parte stare.
Non è poco. Ci insegna che è nostro
il ruolo: che nessuno dei nostri caduti,
qui presenti, resti solo, senza senso.

Il loro senso è tutto nelle nostre mani,
nel domani che sappiamo costruire.
Con la loro vita, 
la loro sofferenza sulle spalle e il sole.

fine